L'Australia.Un continente grande quasi quanto la vecchia Europa sulla cui superficie è distribuita una popolazione di circa 17 milioni (quasi un quinto del nostro stivale).
E’ terra tanto vasta che gli stessi esiliati inglesi d’inizio secolo si sentivano più liberi in quel continente inospitale, fatto di sabbia e foresta, popolato da improbabili mammiferi mai visti, che nella loro civilizzata e confortevole Inghilterra: arrivarono a definire i connazionali Britannici rimasti “liberi” nella propria nazione “POMEs” (prisioners of mother England = prigionieri di madre Inghilterra).
Nazione a dir poco multirazziale. Un mix di rappresentanze da tutto il mondo, esempio di globalizazzione etnica, che, speriamo, non subisca la nefanda influenza delle nazioni piu’“anziane”.
In occasione dei Mondiali di Rugby il continente australiano si è trasformato in una piccola isola, un po’ come la nostra Sardegna durante le vacanze estive, ma lo spirito era di tutt’altra natura!
Arrivando in città, qualsiasi città, ci si rende subito conto che l’argomento è uno solo: il rugby.
I negozi sono un parco delle meraviglie per gli appassionati: magliette, gadgets e articoli d’ogni genere.
Due giorni prima delle partite le città ospitanti si popolano di tifosi. E’ un piacere per gli occhi e per lo spirito. Tutti vestono orgogliosamente la maglia della propria nazionale mentre passeggiano per la città. Essere riconosciuti è un onore! Ogni incontro tra rappresentanti delle opposte tifoserie è occasione per brevi commenti o per un invito a bere una birra al pub più vicino.
Come da programma la prima partita dell’Italia si gioca l’11 ottobre al Melbourne Telstra Dome: Nuova Zelanda vs Italia!
Inutile dirlo, quel giorno la città traboccava di maglie nere. Noi eravamo circa 25, una rappresentanza composta da mogli, papà, mamme, zie, cugine, sorelle e pochi intrepidi amici. Ci conoscevamo tutti.
La partita era scontata nel risultato, forse non altrettanto nella resistenza opposta dai nostri eroici “panchinari” del torneo. Una squadra messa in campo per sacrificarsi in nome di migliori risultati futuri, capace di sorprendere tutti sin dall’inizio, approfittando di alcuni gap dei “tutti-neri” che in certe fasi di gioco ostentavano una poco sportiva presunzione, permettendoci di mettere a segno punti che saranno ricordati nella storia italiana dei mondiali di rugby.
Neanche a dirlo, le critiche sono piovute come un acquazzone in primavera! “Non è rugbysticamente serio schierare la seconda squadra di fronte ad un onorato e potente avversario quale gli All Blaks.” E poi: “….nel rugby bisogna sempre combattere fino alla fine….” , “… mai regalare niente all’avversario, l’orgoglio prima di tutto!”.
Bello, molto romantico, ma certamente appartiene ad un gioco passato cui rimangono legate vecchie cariatidi del rugby, nostalgiche di una gloria tanto bramata in passato e poco concretata.
Sarei curiosa di sapere se la pensassero cosi anche in Francia o Inghilterra o gli stessi neozelandesi che, seppur legati alle loro tradizioni, forse non sono proprio quegli isolani carnivori, tutti muscoli e balli rituali come qualcuno potrebbe credere. Loro il rugby lo sanno fare non solo in campo!
Quella “vecchia” volpe di John Kirwan ci ha visto lungo e ha cercato di vincere la guerra, non la battaglia. Ha dimostrato coraggio per l’ennesima volta (dopo tutto quello già espresso in campo nei suoi non troppo lontani anni d’oro), sapendo che, questa presa di posizione contro corrente, sarebbe potuta costargli il posto. Si, così funziona da noi: non si cambia niente, solo l’allenatore, se fa i capricci! Ne sa qualcosa il generoso Brad Jhonston.
Ho seguito la partita con un amico maori, Mahani. Era sorpreso riguardo al numero di punti segnati dall’Italia, abituato a vederla perdere con punteggi degni di una partita di cricket!
La prossima partita è a Canberra: Italia-Tonga. Il risultato non è così scontato come il precedente.
La nazionale è al completo. La prima linea è quella pesante delle grandi occasioni:
1 Lo Cicero, 2 Ongaro, 3 Castrogiovanni.
Le retrovie pungenti, con i fratelli Dallan ed il nostro centro da sfondamento Stoica.
Il 15 ottobre al Canberra Stadium anche la tifoseria italiana è al gran completo: siamo tutti e 25!
L’inno, che a Melbourne si sentiva a stento provenire dalle gradinate, questa volta è piu’ nitido.
L’atmosfera è ovattata, gli occhi lucidi, la gola già brucia per aver cantato con troppa foga.
Sembra non manchi nulla!
I ragazzi in campo sono emozionati, si capisce da come si stringono durante l’inno e dalle mascelle serrate.
L’ultima partita giocata contro le Tonga fu’ nel ’99. Perdemmo di soli tre punti.
“Forza ragazzi!” è il grido ricorrente prima del fischio d’inizio.
I tongani sfoggiano subito il loro punto di forza: la durezza nello scontro fisico. L’organizzazione nel gioco non è delle migliori.
Meglio per noi.
Le gerarchie sono definitivamente chiarite quando il capitano avversario Afeacki è atterrato da un micidiale impatto contro il nostro numero uno Lo Cicero.
La platea e lo stesso Lo Cicero sono preoccupati, la terza linea tongana è portata fuori del campo priva di sensi. In seguito ci faranno sapere che sta bene ma non potrà giocare le prossime partite.
Questo mette in guardia la squadra avversaria. Erano feriti dalla loro stessa arma.
La vittoria è dolcissima.
L’estasi dura poco. Fra cinque giorni ci aspetta il Canada e temiamo possa ripetersi un film già visto più volte: l’Italia spedita a casa con una sola vittoria
J.K. tiene la squadra chiusa a chiave.
Nei corridoi dell’albergo che li ospita, i pochi visi che s’incontrano sono tesi.
Le cameriere del piano non ne possono più di riordinare la confusione che rimane al passaggio dei ragazzi nella sala “comune” (solo per loro), unico posto dove possono sfogarsi giocando a carte, tennis da tavolo, biliardino, freccette.
La prossima partita segnerà il passaggio dell’Italia nella storia o nell’album interminabile dei mediocri.
Intanto, girando per le strade di Canberra si cominciano a vedere le prime maglie bianche, rosse e nere dei canadesi.
Non sono come gli avversari già incontrati, ostentano una fastidiosa sicurezza forse memori della vittoria ottenuta in casa nostra nel 2000.
Loro, la birra, non la offrono agli avversari, se la bevono tra loro.
Non è molto rugbystico!
Forse sarà colpa di quel pizzico di sangue francese che ogni buon canadese porta con sé.
Il giorno 21, mentre il bus messo a disposizione dei tifosi dal comune per raggiungere lo stadio si riempiva di maglie rosso-nere, alcuni italiani, in palese inferiorità numerica, rispondevano ai canti canadesi intonando il proprio inno e suscitando l’ilarità del loro pubblico straniero.
“Ridete pure – penso – ci vedremo in campo!”
Con mio gran piacere noto, entrando nello stadio, che la macchia azzurra sulle tribune si era sorprendentemente allargata.
Nel momento più bello, quello degli inni, il coro era alto e chiarissimo e avrei scommesso che si udisse anche a distanza dallo stadio.
Questi sono punti a proprio favore che nello spirito degli avversari lasciano un segno.
Si vedono striscioni che prima non c’erano: chi sostiene l’intera squadra, chi il proprio beniamino.
Sulle gradinate si possono individuare alcuni tifosi con tanto di tricolore e maglia azzurra che incitano i ragazzi con un improbabile accento: sono i nostri connazionali emigrati, i loro figli o lontani parenti.
L’Italia soffre.
Il Canada ci crede.
Il punteggio finale decreta una vittoria con un significato per l’Italia che va ben al di là dalla superiorità dimostrata in campo.
La storia del rugby italiano è stata scritta e controfirmata da ogni singolo connazionale presente quella sera uggiosa al Canberra Stadium.
Mai l’Italia aveva osato tanto in un mondiale.
Ancora una volta non c’è tempo per festeggiare. Fra tre giorni si gioca nuovamente.
I ragazzi sono stanchi. Ne sanno qualcosa i fisioterapisti che fanno turni straordinari per cercare di allentare le contratture e forse non basteranno i bagni di ghiaccio, ordinati dal preparatore atletico Valentini, per smaltire gli acidi e far sì che i nostri si presentino in campo nelle stesse condizioni degli avversari. Loro hanno avuto due giorni in più di riposo e questo, chi ha giocato a rugby, sa quanta differenza può fare.
Il Galles lo conosciamo bene.
Abbiamo con loro un appuntamento annuale e, in occasione dell’ultimo Torneo delle Sei Nazioni, lo abbiamo battuto a Roma con un più che onorevole punteggio: 30-22.
I tifosi gallesi sono arrivati già il giorno 22 a Canberra.
In anticipo rispetto alle altre tifoserie.
Abbiamo giocato già due partite in questa città, ci sentiamo un po’ padroni di casa e, stavolta, qualche birra la offriamo noi.
I gallesi sono molto confidenti, sanno che il loro stato fisico è notevolmente superiore al nostro e non esitano a dimostrare la loro sicurezza.
Per loro la festa è iniziata già da tre giorni e per strada i cori e gli schiamazzi si protraggono tutte le sere, sino all’alba.
Sono irritanti.
Di notte si è svegliati spesso dalla loro esuberante euforia.Ci si chiede se saranno in grado di supportare la loro squadra nel giorno della partita!
I gallesi sono gente tosta, minatori.
Arriva il giorno del verdetto. Entrambe le squadre si stanno giocando il passaggio ai quarti di finale.
Chi perde torna a casa.
Stesso rituale delle precedenti partite. Ci sembra che la ripetizione sistematica e precisa delle nostre azioni possa produrre un’aura di positività: stessi vestiti, la giocata al botteghino, la birra con la tifoseria prima di partire per lo stadio con il solito bus, medesimo settore sulle gradinate.
Ci siamo tutti, anche i soliti improbabili italoaustraliani. Ormai siamo amici e, in ogni caso, tifiamo per la stessa squadra. E' quanto basta.
Anche oggi scende una leggera pioggerella ma ci fa piacere, fa parte del rituale.
La palla è scivolosa e, durante la partita, non poche volte rimane a terra nell’attesa di essere posseduta.
Si capisce subito che i ragazzi hanno l’acqua alla gola. Il nostro mediano d’apertura non riesce a dare respiro al gioco quando i gallesi, spesso, ci opprimono nella nostra metà campo con un ritmo oltre le capacità fisiche degli Italiani.
Lo sanno bene che i due giorni di recupero in più sarebbero stati la loro salvezza!
Al termine della partita, dopo un estenuante testa a testa, loro esultano.
Anche noi!
I nostri ragazzi passano sotto le tribune e ci ringraziano.
Noi facciamo altrettanto.
Lo spettacolo e l’emozione che ci hanno procurato saranno ricordati dai presenti e non, per lungo tempo.
Queste giornate rimarranno come una pietra miliare nella lunga strada che il rugby italiano sta percorrendo.